IL TRIBUNALE

    Ha emesso la seguente ordinanza.
    Il  collegio compulsato il verbale di udienza del 19 ottobre 2000
contenente  le  contestazioni mosse aMantellini Giuseppe esaminato in
qualita'  di  imputato  di reato connesso ed avvalsosi in tale veste,
della facolta' di non rispondere;
    Rilevato  che  dalle  suddette  contestazioni  e'  emerso  che il
Mantellini   ha  effettuato  nel  corso  della  fase  delle  indagini
preliminari  dinanzi  al  pubblico ministero procedente dichiarazioni
erga  alios  come da verbale del6 ottobre 1993 ore 12,30; rilevata la
necessita'   alla   stregua   di   tale   elemento   di  novita',  di
riconsiderare,  d'ufficio,  sotto  il  profilo  della rilevanza, e di
considerare,  sotto  quello  della  non  manifesta  infondatezza,  la
questione  di  illegittimita'  costituzionale  degli  artt. 513 e 210
quarto  comma c.p.p. per violazione degli artt. 3, 24, 25 e 112 della
Costituzione  sollevata  dal  pubblico  ministero  all'udienza  del 1
giugno 2000 e rigettata, allo stato, da questo collegio con ordinanza
del 15 giugno 2000;

                        Osserva quanto segue

    Occorre  muovere  da  una,  seppur  sintetica,  analisi di alcuni
profili  del  rinnovato  art. 111 della Costituzione introduttivo dei
principi  del cosiddetto giusto processo consistenti nella riserva di
legge  in materia processuale, nella imparzialita' del giudice, nella
parita' delle parti e nella ragionevole durata dei processi.
    Occorre,   inoltre,   concentrare  l'attenzione  sulla  normativa
transitoria in quanto appare chiaro che con l'entrata in vigore della
legge  25  febbraio  2000  n. 35 che ha convertito il decreto legge 7
gennaio  2000  n. 2  recante  "disposizioni  urgenti per l'attuazione
dell'art.  2  della  legge  costituzionale  23  novembre 1999 n. 2 in
materia  di  giusto  processo"  la  normativa transitoria medesima si
applica  a  tutti  i  processi in corso in primo e secondo grado alla
data  del 7 gennaio 2000 e fino all'entrata in vigore della legge che
disciplinera'  l'attuazione  dell'art. 111 della Costituzione. Com'e'
noto, la legge di conversione, abbandonando il criterio dell'avvenuta
apertura  del  dibattimento  alla data del 7 gennaio 2000, ha accolto
come  regola che i nuovi principi dell'art. 111 della Costituzione si
debbano  applicare a tutti i procedimenti in corso facendo propria la
tesi  che  li  ritiene  in  buona  parte  "self executing"; in via di
eccezione  ha  previsto  un  regime  particolare avente ad oggetto le
dichiarazioni  rese  da chi si e' sempre sottratto volontariamente al
contraddittorio con l'imputato.
    La  normativa  approvata  dal  Parlamento  induce  a ritenere che
spetti  al  giudice  valutare  la compatibilita' tra i nuovi principi
costituzionali  e  le norme attualmente contenute nel codice. In caso
di  incompatibilita'  sembra  potersi affermare che il giudice stesso
sia  legittimato  a  disapplicare  la  norma  ordinaria senza doverne
eccepire  la  illegittimita'  costituzionale  pervenendo  cosi' ad un
giudizio  di  abrogazione  tacita. Resta ferma, ovviamente, l'opzione
alternativa   costituita   dalla   devoluzione   della  questione  di
illegittimita'  costituzionale  della norma alla corte Costituzionale
depositaria, in materia, di un'attribuzione esclusiva.
    La stessa giurisprudenza della corte Costituzionale, anche quando
ha  chiaramente riconosciuto la possibilita' di un effetto abrogativo
delle  norme  costituzionali  rispetto  a quelle ordinarie, ha sempre
dichiarato  ammissibili  le  relative  questioni di costituzionalita'
ritenendo  che  spetti comunque al giudice ordinario in via esclusiva
l'accertamento dell'eventuale abrogazione (sentenza n. 193 del 1985).
La  Corte,  peraltro,  ritiene che la possibilita' di un tale effetto
abrogativo  sia  limitata  ai  soli  casi  di  "conflitto specifico e
puntuale"  tra  norma  costituzionale  sopravvenuta e norma ordinaria
preesistente  (sentenza  n. 54  del  1979).  Siffatto orientamento e'
condiviso   dagli   studiosi   di   diritto  costituzionale  i  quali
riconoscono  che  l'abrogazione  richiede  un  accertamento  pieno di
incompatibilita'   tra  le  norme.  Esso,  inoltre,  va  compiuto  in
concreto.
    Cio' posto, ritiene il collegio che non sia condivisibile la tesi
secondo   cui  il  rinnovato  art.  111  della  Costituzione  avrebbe
comportato  l'abrogazione  implicita  dell'art.  513  c.p.p.  e,  per
l'effetto, l'impossibilita' di applicazione dell'art. 500 commi 2 bis
e 4 c.p.p. ammessa dalla corte Costituzionale con sentenza n. 361 del
2  novembre  1998  relativamente  alle persone indicate nell'art. 210
c.p.p.  che  rifiutino  o  comunque  omettano  in tutto o in parte di
rispondere  su  fatti  concernenti  la  responsabilita' di altri gia'
oggetto delle loro precedenti dichiarazioni.
    Ed  invero,  siffatta  tesi  sembra  originarsi  da  una  erronea
equiparazione  di  ordini  nozionali  e  momenti processuali che, per
converso, devono, a parere di questo collegio, essere tenuti distinti
e  separati.  Pare  potersi affermare che nessun articolato normativo
precluda  ne'  esplicitamente  ne'  implicitamente,  l'"acquisizione"
delle  dichiarazioni  predibattimentali  delle  persone  ex  art. 210
c.p.p.,  acquisizione  che  puo'  essere garantita solo attraverso il
meccanismo   delle  contestazioni  cosi'  come  sancito  dalla  corte
Costituzionale con la citata sentenza n. 361 del 1998.
    Ne'  pare  potersi  argomentare il contrario in base al fatto che
l'art.  1 comma 2 della legge 2000 n. 35 preveda solo l'acquisizione,
gia'  avvenuta,  delle  dichiarazioni  suddette.  Infatti,  un simile
ipotetico   ragionamento   inferenziale,   oltre   a   non  risultare
analiticamente  e  convincentemente esplicitato dai sostenitori della
tesi dell'abrogazione implicita, come per converso dovrebbe essere in
base  ai parametri decisionali innanzi enucleati, appare - esso si' -
incompatibile  con  il  tenore  letterale e storico sistematico dello
stesso  art.  111  comma  4 della Costituzione che al secondo periodo
recita  testualmente:  "La colpevolezza dell'imputato non puo' essere
"provata sulla base di dichiarazioni rese da chi per libera scelta si
e'  sempre  volontariamente  sottratto  all'  interrogatorio da parte
dell'imputato o del suo difensore".
    Non  pare  seriamente contestabile, dunque, che la regola sancita
dal  legislatore  si  collochi  su  di un piano affatto diverso dalla
"acquisizione"  della  prova  stessa cui, lo si ripete, il meccanismo
delle contestazioni e' funzionalmente preordinato. Essa si riferisce,
bensi',  al  momento  della  valutazione  della prova come si ricava,
altresi',  dall'inequivoco  significato letterale dell'art. 1 comma 2
legge  35  del  2000: "Le dichiarazioni ... sono valutate ..." che, a
sua  volta,  traduce  sul  piano attuativo il precetto costituzionale
innanzi  citato  ponendosi,  al  contempo, su di un piano di coerenza
esegetica con lo stesso.
    Ne'  pare  possa  parlarsi  di  un  uso  improprio di espressioni
lessicali in quanto di valutazione e di acquisizione di dichiarazioni
il  legislatore  parla  in accezioni chiaramente infungibili tra loro
anche  ai  commi  3  e  4  del  citato art. 1 legge n. 35 del 2000, a
dimostrazione  del  fatto  che  tali concetti scandiscono sequenze ed
atti processuali autonomi ed indipendenti.
    Siffatta impostazione appare confermativa di quella che lo stesso
legislatore  ha  trasfuso  nell'articolato  normativo  dell'art.  500
quarto  comma  c.p.p.  disciplinante  il  regime  di  acquisizione di
dichiarazioni  nel  fascicolo  per  il  dibattimento e di valutazione
della  prova  dei  fatti  in  esse affermati. Dal disposto del citato
articolo  si  ricava la prova che contestazione ed acquisizione delle
dichiarazioni  utilizzate per la contestazione medesima costituiscono
le  due  articolazioni di un'unica, inscindibile dinamica processuale
di  tipo strumentale a sua volta distinta da quella tipica della fase
decisionale   imperniata,   per   l'appunto,  sulla  valutazione  del
materiale probatorio acquisito.
    Giova  rilevare  inoltre  che  l'art.  500 comma quarto c.p.p. e'
stato  riprodotto  integralmente nel disegno di legge e di attuazione
della   riforma   costituzionale   gia'  approvato  da  un  ramo  del
Parlamento,  di  guisa  che la tesi secondo cui l'art. 111 ne avrebbe
determinato  l'abrogazione  tacita appare meno sostenibile ancora una
volta sul piano storico - sistematico.
    Non  pare superfluo aggiungere che l'espressione "sempre" inclusa
nel  comma  quarto  dell'art. 111 della Costituzione non sembra dire:
per provare la colpevolezza e' necessario che qualsiasi dichiarazione
accusatoria  sia  sottoposta  all'interrogatorio  del  suo accusato o
difensore.  Essa  pare  dire  una cosa ben diversa: la fonte di prova
deve,  almeno  una  volta, sottoporsi all'interrogatorio della difesa
sulle  dichiarazioni  accusatorie. La norma e' costruita sulla fonte,
non   sulla   dichiarazione.   Se  la  norma  avesse  voluto  vietare
l'inserimento  di  qualsiasi  dichiarazione predibattimentale sarebbe
stata  costruita  in  modo  diverso,  sulla  dichiarazione  e non sul
dichiarante;  del tipo: la colpevolezza non puo' essere provata sulla
base  di dichiarazioni non formate a seguito di contraddittorio delle
parti.
    Il concetto di contraddittorio non puo' essere enfatizzato fino a
stravolgerne  l'autentico  nucleo  funzionale di metodo di conoscenza
attraverso l'esercizio di pari poteri delle parti cosi' come la corte
Costituzionale ha affermato nella sentenza n. 361 del 1998. Quanto al
momento  della  valutazione della prova, non e' seriamente revocabile
in  dubbio  che  esso  coincida  con  la  motivazione della decisione
attraverso  cui  si  estrinseca  il libero convincimento del giudice.
Questo  e' concepito, a sua volta, come un sistema in cui la macchina
conoscitiva  lavora  su  di  un  materiale preselezionato; la tecnica
normativa  di  formazione  e  selezione delle prove e' la tecnica del
divieto  probatorio. O c'e' un divieto, ed allora quel mezzo di prova
non  puo'  veicolare  nessuna  informazione  utilizzabile ai fini del
giudizio, o il divieto non c'e', ed allora le valutazioni sulla massa
di  informazioni  legittimamente acquisite (art. 526 c.p.p.) le fa il
giudice e non il legislatore.
    Resta  da  stabilire se quella sancita nel comma quarto dell'art.
111   della   Costituzione   costituisca  una  regola  di  esclusione
probatoria o se, invece, rappresenti solo una regola legale d'uso che
cioe'  lasci  impregiudicato  il  merito e dica solo come valutare la
prova.  Anche  questa  ipotesi  non  puo' essere esclusa a parere del
collegio, posto che il congegno discretivo sancito dal legislatore ex
art.  1  secondo  comma  legge  2000  n. 35 riproduce lo schema della
cosiddetta   "corroboration"   con   cui   e'  stata  codificata  per
determinate  situazioni  (artt.  192  commi due e quattro e 500 comma
quattro  c.p.p.) la tecnica normativa del "necessario riscontro" che,
in  fondo,  non puo' considerarsi come una eccezione al principio del
libero  convincimento,  essendo  essa stessa la tecnica (logica prima
ancora che giuridica) del libero convincimento.
    Quanto, infine, alla categoria della utilizzabilita' delle prove,
sul  presupposto che essa sia solo in parte connessa al sistema delle
letture,  a sua volta imperniato sulla impossibilita' sopravvenuta di
ripetizione  dell'atto, va evidenziata la diversita' lessicale tra il
termine  "acquisizione"  adoperato dal legislatore nella formulazione
del  comma quattro dell'art. 111 della Costituzione nonche' nei commi
due,  tre  e  quattro  dell'art.  1  legge  2000  n. 35 ed il termine
"lettura"  adoperato  nella formulazione dell'art. 6 legge n. 267 del
1997,   diversita'   di   cui  deve  essere  ragionevolmente  esclusa
l'indifferenza giuridica e da cui sembra logico inferire implicazioni
interessanti  circa  l'esatta individuazione delle regole dettate dal
legislatore  in  materia  di  valutazione di prove. Sul punto, alcune
riflessioni  si impongono: tra lettura e contestazione intercorre una
profonda  differenza  su  cui si e' massimamente incentrata la citata
sentenza della corte Costituzionale n. 361 del 1998 sugli artt. 513 e
210  c.p.p.  essendo la seconda strettamente connessa alla formazione
dialettica   della   prova   davanti  al  giudice  ed  alla  funzione
conoscitiva del processo.
    La  contestazione si puo' definire un momento della formazione di
una  prova  dichiarativa;  la  lettura un atto di acquisizione di una
prova dichiarativa preformata.
    Tuttavia,  la  corte  Costituzionale  con  la  citata sentenza ha
equiparato  gli effetti delle contestazioni ex art. 500 commi due bis
e  quattro  c.p.p.  a quelli della lettura, di fatto attribuendo alle
dichiarazioni  acquisitive  il  valore dell'utilizzabilita'. Parrebbe
dunque    potersi    affermare    che   in   un   caso   del   genere
contestazione-acquisizione  e lettura-utilizzabilita' costituiscano i
segmenti   -  rispettivamente,  il  primo,  causale  ed,  il  secondo
effettuale  - di una operazione processuale complessa con conseguente
svalutazione  del profilo della utilizzabilita' come questione dotata
di autonoma e significativa rilevanza.
    Tuttavia,  alla  luce  dei nuovi valori e garanzie costituzionali
del  giusto  processo,  non puo' essere ignorata la necessita' di una
ridefinizione  legislativa  della  fattispecie  di  inutilizzabilita'
finora  configurata  come  vizio-sanzione "a geometria variabile" con
una  disposizione  normativa  parallela a quella dell'art. 178 c.p.p.
per le nullita' di ordine generale.
    Cio'  posto  osserva  il  Collegio  che nello status giuridico di
imputato  di reato connesso ex art. 210 c.p.p. coesistono due profili
ontologici: quello dell'imputato, appunto, e quello del testimone. In
relazione  al  primo,  egli puo' avvalersi del diritto al silenzio in
ossequio  al  canone  nemo  tenetur  e del contra se; in relazione al
secondo  e'  portatore  di  un  utile  patrimonio  cognitivo  che  ha
l'obbligo  di  canalizzare nel processo assecondandone la tendenziale
funzione  conoscitiva massimamente incentrata sull'accertamento della
verita'   materiale.  Per  converso,  la  costituzionalizzazione  del
diritto  dell'accusato  di  confrontarsi  dialetticamente  con il suo
accusatore  nella  formazione  della prova sancito dalle nuove regole
introdotte   dall'art.  111  della  Costituzione,  contrasta  con  la
facolta'  di non rispondere in relazione a dichiarazioni coinvolgenti
la responsabilita' di altri.
    L'esercizio di tale facolta' appare in contrapposizione al canone
di  ragionevolezza ex art. 3 della Costituzione inteso come parametro
generale  di  funzionalita'  del  sistema  processuale, con l'art. 25
della  Costituzione  in  quanto  paralizza  l'indefettibile esercizio
della  giurisdizione  penale e la formazione del libero convincimento
del  giudice,  con l'art. 24 della Costituzione perche' pregiudica la
piena  e compiuta estrinsecazione del diritto di difesa dell'imputato
e  con  l'art.  112 della Costituzione in quanto inibisce il fluido e
corretto   sviluppo   dell'azione  penale  vanificandone,  di  fatto,
l'ineludibile obbligatorieta'.